Posted by Unknown on venerdì, agosto 22, 2014 | No comments
Un signore di novantuno anni, con un simbolico ed essenziale
ponte veneziano sopra di lui. Un vecchio animale solo e ancora pieno di una
velenosa, avida determinazione a vivere. E’ uno di quei casi in cui l’attore e
il personaggio si confondono: Shylock, l’usuraio ebreo protagonista-antagonista
del Mercante di Venezia shakespeariano, e il suo interprete Giorgio
Albertazzi, che lo scorso 15 agosto ha portato al teatro di Villa Adele ad
Anzio la versione diretta da Giancarlo Marinelli (spettacolo che sarà
replicato, da qui a novembre, in altre città italiane, tra cui Reggio Calabria,
Roma, Palermo e Treviso).
Di sicuro, la principale ragione della moltitudine di
residenti e villeggianti accorsa ad assistere e ad applaudire è stata lui, il
grande attore teatrale (e non solo), come dimostra l’ovazione che ha accolto il
suo ingresso nei panni di Shylock. Oltrepassato il nono decennio di vita,
Albertazzi continua a offrirsi al pubblico con una generosità e una passione
che al contempo commuovono e mettono a disagio. E’ nudo, fragile, eppure lucido
e crudelmente vivace. Senza pause smarrite tra le battute, con passi e
movimenti piccoli, sorretti e prolungati dal bastone, Shylock è presente, duro
e isolato dall’inizio alla fine, mentre tiene testa agli abitanti una Venezia
che lo odia e di cui si beffa, o tenta di beffarsi. L’uomo dietro e dentro il
ruolo non si spoglia del personaggio, ma attraverso di esso. E
allora sentiamo l’accento toscano che emerge nei momenti di maggior
concitazione drammatica (gli urli mentre cerca invano la figlia fuggita di
casa, ad esempio). Ma non è una parodia, né l’ostentazione della propria
soggettività di divo. E’ semplicemente condivisione di una condizione comune,
quella del vecchio attore e quella del vecchio usuraio, entrambi segnati
dall’inevitabile resa alle ragioni del dramma e a quelle della natura. Non ha
più senso tenere le distanze, o dare l’illusione di una distanza. Shylock è
destinato a perdere di fronte alla società dei cristiani, come l’uomo è
destinato a cedere di fronte a forze più grandi di lui.
E perciò, nel
celeberrimo monologo “Non ha occhi, un ebreo?”, non vediamo l’esplosione del
rancore vendicativo, ma piuttosto l’interrogazione desolata, amara, sarcastica,
di una voce resa sempre più stanca e roca dagli anni, ma ancora in grado di
contraddire, di accusare, di rivendicare il proprio essere al mondo. Così come
è molto più l’autoironia, anziché la rabbia scomposta, ad emergere nel dialogo
col servo-buffone che lo informa di come la figlia stia scialacquando senza
pudore i beni paterni. Più che beffarsi di noi, dunque, l’ironia di questo
Shylock-Albertazzi sembra rivolta prima di tutto verso se stesso.
Uno Shylock
che non è la sola ragione d’interesse del Mercante andato in scena.
L’adattamento subito dal testo, infatti, arriva a mettere a disagio almeno
quanto l’interpretazione dell’attore principale. E poiché il vero colpo è
assestato nel finale, ci vediamo costretti ad avvisare dell’imminente spoiler.
Nell’ultima scena il testo spettacolare ribalta clamorosamente le premesse di
quello scritto. In entrambi, le due mogli Porzia e Nerissa, approfittando del
loro travestimento da giuristi maschi, hanno messo alla prova la fedeltà dei
rispettivi mariti facendosi consegnare gli anelli che i due uomini avevano
giurato, in nome del proprio legame amoroso e coniugale, di non dare via. Ma se
la conclusione shakespeariana vede le coppie riconciliarsi dopo che le donne
hanno avuto la soddisfazione di beffarsi dei propri mariti, nel finale di
questa versione la frattura non è affatto sanata: le mogli escono di scena
cariche di autentico dolore e delusione, più che di semplice irritazione.
Perché hanno avuto la conferma dell’amarissima verità che sottende l’intera
opera, quella scritta da Shakespeare come quella messa in scena: la realtà e
l’apparenza non coincidono, mai.
Le parole, anche quelle del cuore e dei
giuramenti, sono simulacri effimeri laddove persino i testi della legge e dei
contratti possono essere indirizzati dall’abilità di un avvocato verso effetti
opposti. L’inganno, la falsità, l’ipocrisia, sono le uniche istituzioni
indubitabili della società. Almeno, di questa società. La società
rappresentata emblematicamente dalla Venezia cinquecentesca, dove tutti portano
una maschera, e non solo durante il Carnevale. La società di quelli che
Shylock-Albertazzi chiama sprezzantemente “cristiani”, con un’emissione di voce
che è quasi un sospiro corrosivo e malinconico. Già, perché in questo mondo di
ruoli dentro i ruoli, di verità non dette e celate dal proprio opposto, l’unico
che pare non nascondere la propria natura, in entrambi i testi, è proprio
Shylock. L’emarginato, l’usuraio, il “cattivo”. L’ebreo. E in questo nuovo
finale, dove tutti sono sconfitti, la beffa dei cristiani si ritorce contro i
carnefici. Una conclusione che, pur ribaltando la lettera del testo
shakespeariano, fa propria l’anima acida e sgradevole del dramma, e la porta
alle estreme conseguenze. La beffa di Shylock ai danni dei cristiani è fallita,
almeno per lui; quella dello spettacolo è riuscita. Senza risparmiare nessuno.
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